Lettera a Marco

Ero riuscita ancora una volta, forse è stata l’ultima, a sorreggerti mentre camminavi con il tuo passo doloroso e incerto, verso il patio davanti al salone. Pochi metri, ti ricordi? Li percorrevamo insieme, con tanta fatica e tu con tanto dolore, il tuo respiro affannato.
Ti ho accompagnato tenendoti forte, come tu fossi di cristallo, fino a che non sei riuscito a sederti. Guardavi le montagne, le alpi Apuane all’orizzonte. Era un tardo pomeriggio di settembre, il cielo sereno. Le tue mani avevano la pelle grigia. Delle sottili vene sfinite dalla chemioterapia striavano di un blu triste il colore stanco della tua vita.
“Portami via” mi hai detto “portami a morire a Roma“. Ero seduta davanti a te, le nostre ginocchia si sfioravano. Ti chiesi perché. “ Non voglio nessuno al mio cancello quando sarò morto, portami via “ .
Non ti ho ascoltato Marco, era tutto così infinitamente triste. Sapevamo entrambi che il tempo stava scivolando veloce via dalle nostre vite. Quelle vite che avevamo passato amandoci come folli da bambini e poi lontani, nel silenzio che ci aveva separato per decenni.
Avrei dovuto fare quello che mi stavi chiedendo. Portarti a morire a Roma, dove eravamo nati, dove avevamo mille ricordi, di quando mi portavi dietro di te sul triciclo al Pincio e a me sembrava che stesse pedalando il principe azzurro su un cavallo immenso, dove giocavamo nei parchi e tu mi mandavi sempre a riprenderti la palla, che tiravi lontanissimo, ai miei occhi tu avevi la forza di un gigante. Ero così fiera di giocare con te. Così fiera che tu fossi mio fratello.
Eri un gigante fragile, ma io non lo sapevo. Vedevo solo un gran trambusto a notte fonda quando arrivava il pediatra, perché il tuo respiro ogni tanto inciampava. E tu eri li, nel lettino accanto al mio e faticavi tanto. Il nostro pediatra. Te lo ricordi Marco? Il Prof. Orsini.

Mamma ci vestiva perfetti per andare ai controlli al suo studio. Quell’uomo alto, con i capelli grigi e la voce profonda. Ti ricordi Pepita? la sua segretaria spagnola? Le sue labbra troppo truccate, quegli immensi occhi verdi e un gran sorriso, ci dava le caramelle mentre aspettavamo che fosse il nostro turno, e sorrideva, sorrideva sempre e ci parlava con quel suo buffo accento spagnolo. Sembrava dovesse iniziare a ballare da un secondo all’altro.
Io ero così fiera di essere li con te, perché eri bellissimo, con i tuoi pantaloncini corti, le tue gambe magre e gli occhi che brillavano di curiosità.
Ridevamo tanto da bambini ti ricordi? Ridevamo fino a che non ci faceva male la pancia, quando strisciavamo piano verso nonna che dormiva sulla poltrona e le mettevamo in bocca la sigaretta di papà e il tuo cappello da cowboy. Lei non si svegliava mai e noi continuavamo ad ammassare cose su di lei, coprendoci la bocca con la mano per non scoppiare a ridere troppo vicino. E poi la svegliavamo con le nostre risate dalla porta.

Avrei dovuto fare quello che mi chiedesti quel giorno. Portarti a morire a Roma. Quel giorno in cui sapevamo che ci stavamo dicendo addio. Avrei dovuto prenderti con la stessa delicatezza con cui ti avevo riportato a casa dall’Ospedale. Tu e la tua bombola di ossigeno, dalla quale non ti saresti separato mai più, sdraiato sul sedile posteriore della tua Jeep. Guidavo piano e ogni tanto mi giravo a guardare la tua testa sul cuscino. Hanno aperto i cancelli del patio di casa tua e io ho portato la macchina davanti alla finestra che dava sul salone. Era lì adesso il tuo nuovo letto, quello che tu avevi chiamato il “letto per morire “. Il tuo, quello vero, era ormai inarrivabile per te, al piano di sopra di quella maledetta casa.
Avrei dovuto portarti a Roma a morire, avevi ragione tu. Solo noi due. Per una volta, l’ultima, ma solo noi due.
Come quando poco più di un mese prima mi avevi detto “perché non ce ne andiamo solo io e te su un’isola e non torniamo più? “. Eravamo in macchina, io e te. Facevamo finta che ci fosse un futuro, ma sapevamo entrambi che non c’era. Che il tempo era ormai orfano del suo orizzonte.
Tu saresti morto senza avvoltoi accanto a Roma, nella dignità della distanza. Non saresti morto, come invece è accaduto, con l’avvicendarsi di persone estranee al tuo letto di morte.

Saresti morto lontano da quella ragazzina che mentre agonizzavi scriveva messaggi immondi a sua sorella sui soldi che avrebbe perso da lì a poco, perché tu non avevi voluto sposarla. Io li ho letti Marco. E non so come descriverteli. È meglio che tu non lo sappia. Non sarebbe venuto un farabutto faccendiere che millanta con te un’amicizia mai avuta, a vedere com’era il tuo viso morente. Non sarebbero venute le persone che tu mai hai voluto vedere alla fine della tua lunga sciagurata malattia. Tu non lo sai Marco, ma mamma ti ha tenuto la mano tutto il giorno, quel giorno che ti ha portato via la morte. Non ha detto una parola, non ha pianto. Ma tu sai com’era mamma. Lei non era brava né con le parole né con le emozioni. Era china, sulla poltrona e ti teneva la mano mentre tu dormivi scivolando via, senza più dolori e affanno, verso la morte.

Il mio viso accanto al tuo mentre lasciavi la vita, mille volte ti ho sussurrato “ti amo” mentre il tuo cuore piano piano smetteva di battere. Tu eri già altrove, in un mondo libero da quel dolore che ti aveva straziato le ossa e la carne. Che ti aveva tolto il respiro.
Perdonami di non averti portato a Roma. Avevi ragione tu. Lontano. Via da tutto e da tutti. Avrei dovuto farlo. E farti morire con la dignità di cui avevi diritto.
So che è poca cosa, ma come ti avevo promesso la tua bara è stata sempre coperta e solo pochissimi sono entrati in casa. Chi lo ha fatto ha visto solo una tua fotografia, dove ridevi, facevi la linguaccia, appoggiata sul coperchio della bara; accanto tre rose e il tuo Borsalino di paglia preferito.

Quello che è successo dopo, la vita almeno te lo ha risparmiato Marco. Non ti aveva risparmiato nulla nel morire. Ma dopo sei diventato solo denaro. Denaro da ottenere, denaro da esigere o denaro perso.
Una volta mentre lavoravo in Sudan morì un uomo, a tarda sera. Eravamo in un ospedale in un bosco. Era morto di tubercolosi e doveva essere seppellito subito. I famigliari cominciarono a scavare la fossa su di una collina vicina. Ma iniziò a piovere, quella pioggia scrosciante che tramuta tutto in fango. E i familiari dovettero lasciare il corpo sulla collina. Dopo poco gli avvoltoi cominciarono ad arrivare. Li vedevamo volare in cerchio dalle nostre tende. E la mattina dopo trovammo solo una carcassa nel fango.
È questo quello che mi viene in mente se penso al “dopo di te”.
Avvoltoi che volano in cerchio. Il tuo “amico” non ha lasciato passare neanche mezz’ora dalla tua morte prima di chiamare il Notaio per sapere se avevi lasciato un testamento.
Quella ragazzina che avevi accanto, mentre tu lasciavi la vita imprecava sul telefono con sua sorella perché non aveva certezza dei soldi che aveva immaginato di ottenere dalla tua morte.

Ci sono tante che non sai. Mamma è morta, tre anni dopo di te. Ma nella sua testa aveva rimesso tutto a posto. Papà era a lavorare in America, io a Pisa e tu … le ho detto che eri a pescare in Francia. Mi chiedeva se eri felice, se era per quello che non ti facevi sentire. Le rispondevo di si, che eri sereno e ogni tanto mi chiamavi, per dirmi che eri felice e prendevi pesci grandissimi.
Quella bambina che si faceva trasportare fiera sul tuo triciclo ora è condannata a 15 anni di carcere. Dicono che ti ho ucciso, quella mattina in cui mi hai chiamato senza respiro. Lo avrei fatto per avere i tuoi soldi, dicono. So che, pur nella tragedia, il mio presunto movente ti farebbe ridere. Sin da quando Pepita ci dava le caramelle, tu eri quello che metteva via la paghetta e io quella che non ricordava neanche se l’aveva presa. Mi prendevi sempre in giro, perché perdevo i soldi, me li scordavo e tu invece li mettevi sempre via.
Mi hanno processato Marco per il tuo omicidio e condannata a 15 anni di carcere.
Se non fosse tragico sarebbe ridicolo, vero?
Ti immagini io che ti uccido? Quanto rideresti se potessi dirtelo, nessuno sa quanto dietro quel silenzio di anni c’era un amore infinito.

Tu mi hai reso la vita tanto difficile, infinitamente difficile insieme ai nostri genitori. Non ho avuto il coraggio di chiederti perché prima che tu andassi via. So che lo sapevi, me lo ha detto la tua psichiatra, che sapevi di avermi fatto del male.
Ma sapevi anche che ti amavo da lontano, più lontano che potevo.
Quando hai scoperto di avere un tumore mi hai fatto chiamare da nostra cugina. Io ero in Siria, era notte fonda, il silenzio rotto solo dal rumore delle bombe e lo scoppiettio del fuoco che scaldava la mia stanza nuda.
Perché non hai chiamato tu Marco? Perché? Tutto sarebbe andato così diversamente. Io sarei venuta da te e ti avrei impedito di fare quell’intervento che ha rovesciato la clessidra del tuo tempo.
Perché per una volta non ti sei comportato da persona normale, da fratello?
Neanche la seconda volta mi hai cercato tu. Hai mandato un mio collega che avevi conosciuto a offrirmi dei soldi a titolo di “ risarcimento” se fossi venuta da te. Con un tuo biglietto da visita . Sapevi bene che era l’ultima cosa che mi avrebbe mosso, i soldi. Perché Marco? Perché sei stato così ottuso ? Perché mi hai cercata così, dopo la vita difficile che avevamo avuto da adulti? Dove era finito quell’amore immenso che avevamo provato da bambini ?

La sola volta che hai chiamato tu io mi sono precipitata da te, anche se con un’immensa paura di ritrovare tutti i miei demoni.
La tua voce che diceva “Marzietta“ ha rotto ogni muro, ha sgretolato ogni mia difesa.
Ma era troppo tardi per riparare agli errori che ti avevano fatto fare e che avevi voluto fare.
Come hai potuto credere che quello che ti offrivano i due medici di Milano e Torino avesse un senso dopo quello che ti era stato proposto Pisa?
Ho cercato ovunque qualcosa che riparasse il danno ormai fatto, ma niente poteva restituirti la sola mano di carte che avrebbe vinto il banco.
“Mi sono suicidato ma tu dov’eri? “mi hai detto un giorno… è vero io non c’ero. Ad impedirti di suicidarti.

Credi che non mi sentissi in colpa? Ma non ho avuto il coraggio di rispondere a quelle chiamate fredde come il ghiaccio, senza alcun amore. Avevano un sapore di ferro e dolore, quello che avevo conosciuto con voi, la mia famiglia, e con te. Con te che hai tradito quell’amore immenso che ci legava.
Sono sei anni che pago quel senso di colpa. Mi hanno arrestata, infangata, chiamata “spietata assassina“, “brutale”. Non posso tornare a casa, mi hanno preso il passaporto, non posso tornare al mio lavoro. Non posso vivere la vita che mi resta.
Perché la tua morte mi ha devastata, il senso di colpa mi ha divorata fino a farmi sentire responsabile di tutto quello che ti aveva distrutto, del tuo dolore, della tua paura, della tua morte.

Ho ereditato la tua vita Marco, quegli avvoltoi di cui ti eri contornato. Quel nulla di cui avevi riempito la tua vita.
E forse ho ereditato anche l’odio di tanta gente. Perché amavi essere temuto.
Sto pagando la tua vita , stupido, ottuso, testardo amore mio grande.
Quelle rose che cadono in mare ogni 25 settembre dove riposano le tue ceneri, sono le mie.
Ti amerò, tu che sei stato il grande assente della mia vita, finché sarò su questa terra.
Come ti ho sempre amato. Immensamente. Come ti ho sussurrato mentre lasciavi, abbracciato a me, questa vita.
Spero che la tua profonda inquietudine, che nessuno conosceva, abbia trovato pace nell’eternità.
Ci ritroveremo, un giorno, a rotolare silenziosi e vicini nel fondo del mare. Io e te, finalmente veri e uniti.

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Lucia
Lucia
10 mesi fa

Immensa “Marzietta” ❤️🌹

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