Intervista Corriere della Sera 30 marzo 2024

Marzia Corini, l’anestesista assolta: «Accusata di aver ucciso mio fratello Marco per 8 anni, ma non ci fu nessuna iniezione letale»

Medico anestesista, una vita spesa per i feriti di guerra di mezzo mondo, Ciad, Afghanistan, Iraq, Liberia, Siria, Pakistan… E poi, otto anni fa, l’accusa peggiore che potesse piombarle addosso: aver ucciso il fratello per l’eredità. Sono seguiti anni d’inferno, l’arresto, la condanna, i processi, fino alla sentenza della Corte d’Assise d’appello di Milano che mercoledì l’ha assolta: nessun omicidio, Marzia Corini ha fatto quello che doveva per cercare di lenire il dolore del fratello Marco Valerio, malato terminale, nel suo viaggio verso la fine.

Marco Valerio è morto il 25 settembre del 2015 nella sua casa di Ameglia, vicino a La Spezia. Era un noto e facoltoso avvocato spezzino, legale di vip e calciatori ed era stato presidente dello Spezia Calcio. Lei, 59 anni, era al suo capezzale negli ultimi giorni di vita. Per i giudici di primo grado di Genova, che l’avevano condannata a 15 anni, avrebbe fatto al fratello un’iniezione letale per accelerare i tempi pensando al testamento. Per quelli d’appello nulla di tutto ciò: «È stata ineccepibile come familiare e come medico». Da un estremo all’altro, prima avida e spregiudicata, poi sorella esemplare.

Dottoressa Corini, cosa le rimane di questa storia?
«Una profonda amarezza per come funziona il sistema giudiziario in Italia. Da persona che si considerava perbene ero convinta che non mi avrebbe mai riguardato e non me ne sono mai curata, sbagliando».

Che rapporto aveva con suo fratello?
«Le nostre strade si erano divise da tempo: lui era diventato un famoso avvocato, io mi sono sempre dedicata al lavoro umanitario, scelta peraltro poco gradita alla mia famiglia che mi sognava primario e mi vedeva come la pecora nera di casa. Per anni non abbiamo avuto contatti, fino a quando Marco si è ammalato. Mi fece prima cercare da amici, poi mi chiamò per chiedermi se lo potevo accompagnare nella malattia e così sono tornata per rimanergli accanto. Non l’ho fatto per i soldi, io non sono legata al denaro, tutt’altro, avevo già detto no al testamento di mio padre. La mia quota di eredità l’avrei comunque devoluta a una ong».

Ci racconta quel tragico giorno?
«Mio fratello aveva avuto una crisi respiratoria. Ero sola, ho chiamato tutti ma non è arrivato nessuno. Dovevo scegliere cosa fare. Ho deciso di iniziare la sedazione palliativa, come avevo concordato al mattino con il medico che lo seguiva. L’inizio della sedazione è il momento del distacco, per me è stato devastante».

L’iniezione letale?
«No, non c’è stata alcuna iniezione. È successo che era uscito l’ago inserito nel torace. Ho cercato così una vena nel braccio ma è andata male. Disperata sono riuscita a riposizionare l’ago e riprendere la sedazione. La manovra non ha accelerato di un minuto il decesso. Se avessi fatto un’iniezione sarebbe morto in pochi attimi e invece mi ha lasciato più di un’ora dopo».

L’accusa ha puntato l’indice sull’eredità
«Hanno giocato la carta dell’eredità cucendomi addosso un personaggio che non mi appartiene, visti i 51 anni precedenti della mia vita. È risultato così inverosimile, come movente di un presunto omicidio, che lo stesso pg di Genova lo scartò categoricamente. Io non avevo alcun interesse a modificare le disposizioni testamentarie, che infatti nei miei confronti sono rimaste sempre le stesse».

La prova sarebbe in una telefonata intercettata, nella quale lei si confidava con un’amica: «Non sarebbe mai morto quel giorno, ho deciso io per lui». Come vanno lette quelle parole?
«Nell’ottica di un dolore infinito. Credo che mai più nella vita potrò sentire un dolore simile. Con la sua morte, la mia vita è andata in pezzi. Mi sentivo colpevole di non averlo salvato. Nessuno avrebbe potuto farlo ma io avevo sviluppato una sorta di fantasia salvifica.».

Pensa di aver sbagliato in qualcosa?
«Sì, se potessi tornare indietro non mi occuperei più di proteggere la sua compagna. Avrei dovuto lasciare nel caos l’eredità e tornare alla mia vita per elaborare il lutto. Marco era deceduto senza lasciare testamento e io l’ho scritto sotto dettatura solo perché lui non riusciva a farlo. Quel fracasso intorno alla sua eredità non faceva per me».

Con chi ce l’ha?
«L’odio è un sentimento forte, bisogna avere spessore per meritarlo. E in questa triste vicenda triste non ho incontrato nessuno degno di tanto».

Cosa farà ora?
«La prima cosa sarà ritrovare il mio centro, che passa attraverso il lavoro umanitario. Ero in Ucraina fino a qualche mese fa, ora vorrei andare in Afghanistan con una ong. Ma questa vicenda ha aggiunto uno scopo alla mia vita: denunciare la Giustizia mal gestita. È una guerra non dissimile da quelle del terzo mondo in cui ho lavorato. Fa meno rumore e forse questo la rende ancora più feroce».

E quell’idea di investire l’eredità in una scuola per la formazione di personale umanitario?
«Purtroppo non è più possibile visto che la scuola è già nata. Troverò un altro modo perché i soldi arrivino a chi ha bisogno».

Pensa che ora sia stata messa la parola fine su questa brutta vicenda?
«Qui farei rispondere il mio avvocato».

L’avvocato è il professor Vittorio Manes, che ha difeso Marzia con il collega Giacomo Frazzitta: «Dipende dalla valutazione della Procura generale che può sempre fare ricorso. Spero che si prenda atto delle due sentenze di assoluzione trancianti che hanno ritenuto del tutto infondata l’ipotesi dell’omicidio e riscontrata la sola finalità di lenire le sofferenze del fratello nel momento del trapasso».

Una parola per suo fratello?
«Ne ho molte ma le dico solo a lui, ogni giorno».

Fonte: Corriere.it https://www.corriere.it/cronache/24_marzo_30/marzia-corini-intervista-abc460a2-ee0d-11ee-8deb-6faf828a47a7.shtml
Intervista di Andrea Pasqualetto

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