Aspettando la Vita

 

2 Novembre 2014 h 17:53: “Tuo fratello molto male”.

Questo il messaggio su Messenger di mia cugina. Le scrivo il mio numero di telefono a Cayenna dove vivevo. Pochi minuti dopo la voce di Marco che mi dice: “Marzietta”.
Fu la sua prima ed esplicita richiesta, quel 2 Novembre 2014, e arrivò con una sua telefonata.
Non avvenne per interposta persona come avvenuto le precedenti due volte. Volte in cui quella distanza che metteva fra noi, facendomi ” avvertire” che lui era malato, da altre persone, mi impediva di avvicinarmi perchè mi ricordava l’uomo dal quale mi ero allontanata per 15 anni.

Non mi offriva, come due volte in precedenza, “risarcimenti in denaro” per i dolori che mi aveva procurato in passato e che ben sapeva non mi avrebbero sedotto.
Finalmente aveva scelto la via più limpida: quella della comunicazione diretta e sincera. L’unica che poteva innescare la mia giusta reazione. Andare da lui e stargli vicino, aiutarlo ad affrontare la sua malattia.
Aveva usato un telefono che squilla dall’altra parte dell’Oceano e la sua voce che aveva detto “Marzietta”. Mi voleva accanto a lui, per cercare di affrontare quel cancro che lo stava uccidendo.

Ogni muro della vita feroce che ci aveva separato per oltre 20 anni è crollato al suono della sua voce. Ogni mia resistenza a rientrare nella mia famiglia è caduta.
Sapevo dentro di me che andavo incontro a tutti i miei demoni, ma non ho più trovato il coraggio di dire no.  Era finalmente mio fratello, quello che avevo amato così tanto, quello che mi aveva cercata. Ero sconvolta dal dolore per la malattia di mio fratello ma al tempo stesso ero avvolta dal desiderio di potermi prendere la responsabilità di curare la sua malattia. Stargli accanto, curarlo e nella mia fantasia,  salvarlo.

Dopo solo 10 giorni ero in Italia. Arrivai con la sicurezza che sarei riuscita a fronteggiare la sua malattia e a trovare le soluzioni più efficaci.
Appena presi visione del quadro clinico mi resi conto che medici incompetenti e accondiscendenti lo avevano consegnato a una morte certa.
Non aveva seguito, come io credevo, quanto gli avevano proposto a Pisa, ma aveva trovato due medici, un chirurgo e un oncologo di Torino e Milano, che gli avevano proposto un intervento terribilmente sbagliato. Scellerato e folle per curare la sua patologia.

Immediatamente contattai il più grande oncologo per il tumore del colon retto, il Dott Leonard Saltz del Memorial Sloan Kettering di New York. Era riparabile l’errore? C’era qualcosa che lui poteva fare? Lui mi rispose: “No, ormai è tardi “. Da quel momento in poi condividemmo con il Dott Saltz ogni decisione. Avere vicino un così grande specialista era di conforto. Tra noi due decine di messaggi email. Un carteggio durato un anno.
Nello stesso tempo mi accorsi che oltre a rientrare all’interno dei turbamenti famigliari, mi trovavo nel gorgo delle relazioni ipocrite e interessate che Marco aveva raccolto intorno a sé. Un vortice che mi avrebbe travolto di lì a poco in quel calvario che dura ormai da 6 anni: l’imputazione e poi la condanna in primo grado a 15 anni per omicidio volontario aggravato di mio fratello e falso in testamento.

Senza volerlo e senza capire cosa stava per succedermi, avevo oltrepassato un confine che avrebbe spezzato in due la mia vita.
Dall’impegno umanitario che avevo vissuto per 20 anni, stavo per essere ingoiata dall’infamia di un’accusa assurda.
Dalla libertà che avevo scelto di mettere al primo posto della mia vita sarei stata trascinata, mio malgrado, in una dimensione di negazione di ogni mio diritto.

Questo blog è per raccontare chi ero e chi sono ora
Perché una follia si sta consumando nella mia vita e nel corso di questo incubo mi sono resa conto che è un’esperienza che potrebbe accadere a ciascuno di noi.
Chiunque venga investito da questo tritacarne, della Giustizia può trovarsi nella mia stessa condizione. Giudicato prima del giudizio e scaraventato in un inferno esistenziale che non lascia più nessuno spazio alla coscienza né ai valori nei quali hai creduto e per i quali hai vissuto.

Secondo la Procura e ora la Corte di Assise di La Spezia, io avrei ucciso Marco per avere il suo denaro.
Come lo avrei ucciso? Utilizzando una sedazione palliativa.
Una scelta obbligata di cui ha avuto bisogno perché stava asfissiando, in una crisi respiratoria non più trattabile, ormai cachettico, allettato, con metastasi ossee, linfonodali e ai vasi linfatici polmonari. Un uomo devastato dal cancro e ormai completamente dipendente dall’ossigeno, che purtroppo, a quel punto, non poteva più bastare.
Una scelta che ho fatto dopo aver chiamato il suo Palliativista sin dalle 7:30 del mattino, perché arrivasse il più presto possibile a casa. Una richiesta ripetuta per ben 5 volte nel corso di quella giornata
Una scelta che ho fatto avvisando i due oncologi che lo seguivano e una sua amica Dottoressa al Pronto Soccorso di Sarzana.
Un intervento che ho eseguito in una stanza nella quale erano insieme a me altre 8 persone, tra cui un Magistrato.
Impossibile che io abbia sbagliato anche solo un dettaglio di un’operazione che ho svolto migliaia di volte.
Quanto meno improbabile che io abbia commesso un omicidio alla presenza di così tante persone.
Curioso che nessuno si sia accorto di nulla.

Nessuno, tranne Isabò Barrack, giovanissima compagna di mio fratello, che dopo 5 mesi dalla sua morte, non prima, ha avuto questa folgorazione di memoria. Un ricordo sopraggiunto dopo aver preso 550.000 Euro. Una cifra evidentemente troppo bassa per lei e per chi l’ha affiancata nella denuncia.
Isabò Barrack ha ricordato l’omicidio dopo mesi in cui le ero stata accanto, considerandola una persona che aveva un ruolo sentimentale nei confronti di mio fratello.
Lo ha ricordato in modo incerto, contraddittorio, pieno di “non ricordo”.
Una versione che è stata appoggiata con forza su una mia maledetta telefonata nella quale mi incolpavo della morte di mio fratello. Un dialogo telefonico spinto da un senso di colpa che mi divorava dal giorno in cui mi ero resa conto di essere arrivata tardi. Che mi aveva tritato l’anima per non aver risposto alla prima chiamata e aver lasciato che lui si facesse condurre da “luminari” di Milano e Torino su una strada scellerata terapeuticamente, che lo aveva portato all’aggravamento della malattia e alla morte.
Non aveva seguito la strada che gli avevano indicato a Pisa, la sola percorribile.

Mi disse quando ne parlammo “Io mi sono suicidato…ma tu dov’eri?”
E aveva ragione. Io non c’ero e non ero corsa subito al suo capezzale.
Io non ero accanto a lui per farlo ragionare e riflettere. Per fargli seguire la strada maestra che avrebbe potuto non solo allungargli la vita, ma addirittura forse guarirlo.
Una colpa che ha investito la mia vita e che ancora mi tormenta, e quella mattina non avevo altra scelta se non fare una sedazione palliativa.
Una scelta doverosa ma infinitamente tragica se ha a che fare con l’ultimo respiro di tuo fratello, perché la tua esperienza sa bene che sta cominciando il momento del distacco. Il momento in cui si getta la spugna e si accetta che la morte possa portare via una persona che ami.

La denuncia a mio carico e da cui è partita l’indagine è stata presentata da una persona che mio fratello mi aveva detto essere la persona che “riciclava il suo nero”. Un uomo già condannato (sentenza in giudicato) per appropriazione indebita. Un uomo che ha altri procedimenti penali in corso. Quest’uomo si è dichiarato suo grande amico, ma solo mezz’ora dopo la morte di Marco era già al telefono con il notaio per informarsi sull’entità del testamento.

Da quel momento i miei telefoni sono stati messi sotto controllo come le mie email. L’avviso di garanzia è stato mandato non dove vivevo realmente (il mio indirizzo era scritto sul testamento di Marco) ma in una casa dove non vivevo più da oltre 20 anni, così che la Procura potesse essere certa che non avrei ricevuto nulla. Che non sarei rientrata da Cayenna, dove vivevo, per capire cosa stava succedendo. Ma questo è legale, ed è così che inizia la battaglia tra Davide e Golia. I poteri sono sbilanciati. Impari fino al parossismo.

Non voglio entrare nelle questioni del processo ora, non finché non saranno rese note le motivazioni della mia condanna.

Questa mia testimonianza è nata per denunciare cosa accade quando da cittadina libera e inattaccabile, si diventa improvvisamente un criminale brutale e disumano da servire sul piatto dei media.
È nata perché ho compreso che nessuno può considerarsi immune da questo pericolo.
Sono stata letteralmente linciata dai media sin dal giorno dell’arresto, il 12 Febbraio 2016, quando sono rientrata in Italia a trovare mia madre.
Non un solo dubbio sui giornali locali. In pochi giorni mi sono tramutata da persona rispettabile a mostro feroce e senza anima. Per tutti questi anni è stata esposta la mia colpevolezza con descrizioni che non avevano nulla a che fare con me e che non rispettavano minimamente quanto avveniva nell’aula del processo.

Insieme ai miei legali abbiamo deciso di non partecipare a questa infernale giostra mediatica. Abbiamo scelto di seguire una strada priva di inquinamenti strumentali perché eravamo certi che alla fine saremmo arrivati alla verità.
In questi anni ho dovuto assistere in silenzio a notizie false, scritte a caratteri cubitali, come se per vendere si dovesse passare non dalla verità di quanto accadeva in aula, ma dalla pornografia di violare la privacy di una vita, di inventare risvolti sempre più osceni e falsi.

Il tempo del mio silenzio è finito
È arrivato il momento di descrivere come una vita possa essere raccontata e rappresentata a seconda di come conviene. Di come può fare notizia.
È il momento di dire che esiste il concreto rischio che un racconto fantasioso prenda il posto della realtà.
Quando oggi mi si chiede quanto credo nella Giustizia la mia risposta è: nulla.
Questo perché sto provando sulla mia pelle che l’innocenza non basta per avere Giustizia.

Credo nel mio lavoro, credo nella Medicina. Ho la responsabilità di ogni mio paziente. Da ciò che faccio dipende la sua salute. Molto spesso dipende la sua stessa vita.
Ho scelto di operare nei luoghi più complessi del mondo e l’ho fatto perché amo il mio lavoro.

Non mi sono mai arresa di fronte a tanti casi apparentemente disperati.
Non mi arrenderò di fronte a questa battaglia che di certo riguarda me ma appartiene anche a tanti altri che hanno diritto a un processo rapido e a una Giustizia vera ed effettiva.

Il giorno della sentenza di primo grado, 17 Maggio 2021, tutto questo purtroppo non è successo, ma per nulla al mondo farò un passo indietro rispetto al diritto di avere giustizia.

Questa è la mia storia.

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