La mia dichiarazione del 17 maggio 2021

L’aula del Tribunale di Spezia nel giorno dell’ultima udienza

La mia dichiarazione in aula poco prima della sentenza infame che mi ha condannato a 15 anni

Sig. Presidente e Sig. Giudice a latere, Signore e Signori della Corte,
ho conosciuto un dolore cui credevo di non poter sopravvivere, la morte di mio fratello.
Una morte che Marco ha guadagnato ogni giorno, negli ultimi mesi della sua vita, soffrendo e sopportando un supplizio inenarrabile.

Pochi minuti, per dire ancora una volta , con tutta la forza che mi resta, che io non ho ucciso mio fratello. È pazzesco anche solo doverlo dire.
Ma purtroppo, da persona rispettata e retta, sono diventata un’imputata.
E questo sembra rendere le mie parole vuote, private del loro peso in questa aula.
Sono le parole di un’imputata di fratricidio, è vero?
Eppure sono sempre io. La stessa persona, gli stessi valori, le mie parole, quello che ho sempre detto prima di questo risvolto angoscioso della mia vita.

Mi sono stupita quando ho scoperto che non avrei dovuto giurare durante le udienze.
Ai miei occhi, digiuni della regole della Giustizia, era come svilire le parole dell’accusato, che non ha il dovere di dire la verità.
Ma io è con la verità che mi sono difesa. Sempre. Ho confessato di aver scritto il testamento di mio fratello perché lui me lo ha chiesto e dettato.
Sono certa che chiunque, in un momento così drammatico lo avrebbe fatto.
Ma non potrò mai confessare ciò che non ho fatto. Non ho ucciso mio fratello. E lo urlerò finché avrò vita.

Ma le mie parole hanno pesi diversi, a seconda del momento. A seconda di cosa conviene.
Come una stadera che improvvisamente cede sotto il peso del suo stesso piatto, le mie parole dettate dalla disperazione in quella telefonata con Susanna, diventavano la verità assoluta e invincibile. Ma erano la disperazione di averlo perso per sempre, la certezza che la responsabilità fosse solo mia, che non avevo risposto al primo appello.
Quella disperazione montava dentro di me e avvolgeva tutto, e lo travolgeva, senza via di scampo. E quella disperazione, quell’infinita sofferenza si è tradotta in quelle parole.
Invece le mie parole sono vento quando racconto l’infinita sofferenza di Marco la mattina del 24 e 25 settembre, l’inizio della sua agonia.
Viene definita clandestina, una sedazione che non poteva essere la più annunciata e sotto gli occhi di tutti.

Mi sono sopravvalutata, pensavo che le mie spalle avrebbero sopportato il peso di quel momento solenne del distacco: dell’inizio della sedazione. Il momento in cui Marco ha iniziato ad andare via, perché lui dormiva, finalmente libero da quel respiro affannoso e terribile.
Quante volte ho pensato “ma avrei potuto fare di più”, “forse un altro lo avrebbe salvato”.
Questo pensiero mi ha ossessionato fino a convincermi che ogni colpa fosse mia. Anche le sue ultime ore.
Allontanavo da me il pensiero che stesse morendo, non volevo accettarlo dentro il cuore. Altrimenti non avrei neanche pensato di allontanarmi con Amanda il 25 settembre, sarei rimasta lì accanto a lui il 24 notte.
Non è vero che sono rimasta altre notti. Neanche quando Marco stava meglio. Non ho mai neanche pranzato o cenato con loro. Non ho mai ricevuto alcun invito a farlo.
Perché questo era Marco.

Sono sfilate in questa aula tante persone che hanno dichiarato di conoscerlo. Di esserne amiche e confidenti.
Marco non lo conosceva nessuno di loro. Marco era chi voleva essere, era camaleontico. Marco era l’uomo degli sms di amore e delle mail feroci, era l’uomo che dichiarava di sposarsi e non l’avrebbe mai fatto.
Marco era l’uomo che non permetteva a nessuno di entrare nella sua vita privata.
Marco era chi gli conveniva essere. Che si circondava di persone pronte ad ogni suo comando.
Marco era l’uomo che non aveva campanello alla porta, perché nessuno potesse andare da lui inaspettato ospite.
Marco è morto senza un amico con cui avesse la confidenza di farsi vedere malato. La sola persona che aveva era Susanna, ma anche con lei sparì dopo che lei lo introdusse a Buffon.
Marco ha finto di fare mille progetti e non ne ha portato a termine nessuno.
Marco esigeva e gli altri obbedivano.
Marco sapeva che con me tutto questo non funzionava. Per me non era “il principe del foro” o il massone di alto rango. Era solo mio fratello.
Ma è stato feroce e spietato finché non ha pensato di aver bisogno di me.
Io non lo odiavo, ma gli stavo distante. Perché lo conoscevo. E se non lo avessi amato non sarei mai tornata nell’inferno della mia famiglia.

Ho dovuto prendere una rincorsa lunghissima, troppo lunga. E sono arrivata tardi. Non credo mi perdonerò mai.
Ma tornata nella mia famiglia ho trovato la stessa atmosfera e le stesse dinamiche che mi ero lasciata alle spalle da oltre 15 anni.
Quello che ho fatto dopo la sua morte, il pubblicare un testamento nullo, non l’ho fatto per la Barrack, ma per mio fratello. Intendevo rispettare ciò che voleva. Ma di fronte alla condotta di Isabò, ho pensato di fare ciò che avrebbe fatto lui.

Questo lunghissimo processo, ha avuto il solo pregio di smantellare un’ossessione. Di liberarmi dall’incubo di aver sbagliato quel 25 settembre.
Non ho sbagliato. L’ho solo accompagnato tenendolo per mano verso la morte. Che sarebbe giunta quel giorno a quell’ora, con o senza di me.

È morto mentre lo abbracciavo stretto, la sua guancia contro la mia e io gli sussurravo all’orecchio: “ti amo”.

Io non ho ucciso mio fratello. E lo dirò finché vivrò.

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